SETTIMANA COI LIRICI – MERCOLEDI’ – ANACREONTE

Mercoledì, giorno di Mercurio, dio dei viaggi e dei viaggiatori, quindi del commercio e della comunicazione, dell’inganno, dei ladri e truffatori, dei bugiardi e della divinazione, del profitto. Se voi foste il Pisistrato di turno, sarebbe il vostro dio preferito. Di tirannidi nell’antica Grecia ce ne sono state molte sparpagliate tra i secoli e i luoghi, soprattutto nelle isole. Anche se l’accezione di tiranno è ora negativa, ai tempi si poteva considerare una sorta di “dispotismo illuminato”; nelle loro mani si concentravano tutti i poteri, nella maggior parte dei casi sotto richiesta del popolo stesso, pur mantenendo la politeia, cioè la costituzione della polis. Spesso i tiranni erano dei grandi “motori immobilidelle arti e della prosperità; molti edifici come porti, essenziali ai tempi, e teatri, altrettanto essenziali, venivano costruiti per volontà loro. Non ci si stupirebbe se attorno alle “corti” dei tiranni, che lodavano le opere del loro signore, ci fosse anche lo stilo di qualche poeta: Anacreonte era uno di questi.

Se Martedì abbiamo visto Alceo, un aristocratico, e quindi contrario all’instaurazione della tirannide (di stampo populista), oggi vedremo l’altra faccia della medaglia. Anche lo stile poetico ne risulta fortemente differenziato: da una parte la ferocia quasi giambica di Alceo, dall’altra abbiamo una fase embionale, comunque efficace, di voluttuosità formale che incontrava i gusti della vita leggera e spensierata di corte, tra il lusso e lo splendore. C’è un senso di pace che scorre tra i versi di Anacreonte quando parla dell’amore che secondo lui va vissuto con distacco e senza sofferenza, frutto di una concreta consapevolezza di sé, che a volte si conclude con una dolce ironia. Anacreonte in fondo è un gioviale.

Nel simposio greco riecheggiano ancora i versi di Omero ed il frammento 13 P. richiama l’incontro di Ulisse con Nausicaa e le sue compagne che giocano a palla; anche in questa poesia vi è una palla dalla quale parte un gioco cromatico molto interessante.

Con una palla purpurea, di nuovo,

Eros chioma d’oro mi colpisce,

e mi invita a giocare (verbo con sfumatura erotica)

con una fanciulla dal sandalo variegato.

Ma lei – è di Lesbo

ben costruita – disprezza

la mia chioma che è bianca,

e di fronte a un’altra sta a bocca aperta.

(trad. F. Sisti)

C’è un anticlimax di intensità del colore: dal purpureo si passa al dorato, dal variopinto si conclude con il bianco della chioma del poeta che è troppo vecchio. E’ l’ironia di Anacreonte che giunge assieme alla consapevolezza della situazione in cui si trova, in questo caso duplice: quella di sé, in quanto troppo vecchio, poi quella della ragazza che volge lo sguardo ad un’altra ragazza, in chiave omoerotica, facendo l’occhiolino al tiaso di Saffo e alle relazioni omosessuali che spesso nascevano.

Sempre restando sul filone omoerotico, ad Anacreonte piaceva un giovane di nome di Cleobulo al quale vengono dedicati molti versi, considerando quanto spesso egli sia comparso tra i frammenti pervenuti.

C’è un gioco di metafore tra la possibile atleticità di Cleobulo quale auriga ed il potere dell’amore, in questo caso non corrisposto; anche qui torna la consapevolezza del poeta, e quindi l’autoironia che sdrammatizza la vicenda.

Guardi come una fanciulla, ragazzo,

ti cerco, tu non ascolti: non capisci

che della mia anima sei tu a tenere le redini.

(trad. G. Guidorizzi)

In questi casi bisogna berci su, e di nuovo Anacreonte resta sul pezzo con un brano simposiaco carico di consapevolezza derivante dalla sua autocoscienza intellettuale, che nella traduzione qui proposta sembra più una mezza filastrocca da canticchiare in solitudine.

Già canute son le tempie

ed il capo è calvo ormai;

la soave giovinezza

quanto è lungi! Ho gialli i denti,

lungo tempo non mi resta

della dolce vita più;

e perciò spesso singhiozzo

per l’orrore di laggiù:

chè tremendi son gli abissi

dell’Averno; e trista e buia

è del Tartaro la via!

E a quel buio chi discende

non è dato salir più.

(trad. E. Bignone)

Riprendendo la tradizione secondo la quale Saffo si sia gettata dalla rupe di Leucade come innamorata infelice, nel frammento seguente c’è un ribaltamento quasi audace del concetto stesso dello strapiombo: il suicidio per amore non corrisposto. Qui però non c’è nulla di tutta quella sofferenza che porta al gesto estremo, anzi, c’è una sorta di estasi causata dall’intervallo del tuffo, dove il tempo sembra allungarsi per godersi l’ebbrezza dell’amore che pervade il poeta. Qui l’ironia è dovuta dall’indicazione geografica di Leucade, il cui significato viene abbassato e smontato del pathos creato dalla tradizione fino al punto di sembrare uno scoglio qualunque. Questo è il riflesso dell’edonismo di Anacreonte, quella sorta di pax animi che emerge dalla sua poesia, una poesia che non si preoccupa di stravolgere il significato delle convenzioni letterarie antecedenti in virtù del suo soggettivismo, della sua individualità e quindi la sua originalità.

Dalla rupe di Leucade

mi spicco, mi tuffo nel mare bianco, ebbro d’amore.

(trad. F. Maria Pontani)

Se Archiloco ha stravolto la priorità omerica del difendere le proprie armi a costo della vita, preferendo di lasciare lo scudo pur di salvarsi, Anacreonte esagera il gesto del poeta giambico addirittura gettandolo nel fiume. Qui sotto mostro entrambe le poesie per una lettura comparata.

Del mio scudo qualcuno del Sai ora si gloria. Presso un cespuglio

fui costretto a lasciarlo, arma irreprensibile.

Ho salvato me stesso. E allora, cosa mi importa di quello scudo?

Alla malora! Presto me ne procurerò uno non peggiore”

(Archiloco)

Gettai lo scudo nello sgorgo del fiume bello d’acque.

(Anacreonte)

Se il poeta giambico aveva comunque la necessità di “essere armato” essendo in un contesto sociale alquanto caldo, tra le lotte tra clan politici, il poeta lirico invece non ha bisogno di tutto ciò, perché è il tiranno stesso che alla fine protegge la sua penna. Ecco, questo sarebbe un ottimo spunto di partenza tra gli esempi che si possono citare nel rapporto tra intellettuali e potenti.

Anche se in fondo è solo la poetica ad essere contaminata dal potere politico, lo stile non è ancora influenzato dalla celebrazione dei personaggi o dalla cortigianeria tesa più al personalismo di alcuni soggetti poetici, come quelli trattati da Pindaro. Anacreonte non si sbilancia in questo, anzi, è forse il primo poeta lirico che fa suo nel carattere, e quindi nei frammenti pervenuti, il concetto definito da Orazio “est modus in rebus”.

Presto, ragazzo, una coppa

ch’io tracanni d’un fiato!

Tu mesci dieci mestoli

d’acqua, cinque di vino:

ch’io volgio fare un’orgia,

ma senza esagerare.

Suvvia, non beviamo di nuovo

tra gli urli e fra gli strepiti

come usano gli Sciti,

ma sorseggiando fra i bei canti.

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